Browsing this web site you accept techinical and statistical cookies. close [ more info ]

Diary of a Planner by Bernardo Secchi | Planum 2002-2013

Diario 10 | Progetti, visions, scenari

by Bernardo Secchi

  English Version
 

Negli ultimi venti anni o poco più il progetto della città, come ho più volte cercato di dire, è cambiato: ne è radicalmente cambiato il posto entro la società, ne sono cambiati i presupposti, i quadri concettuali, i modi di rappresentazione; è cambiato soprattutto il processo attraverso il quale le ipotesi avanzate da un progetto eventualmente si inverano nella città e nel territorio. Chi ha vissuto il cambiamento giorno per giorno non ha forse potuto apprezzarne la radicalità. Chi, d'altra parte, dal cambiamento è stato disturbato, non ha accettato lo spostamento dalla precedente routine, ha finto di non vederlo, di negarlo o di opporvisi. Ma oggi, dopo che molte pratiche progettuali e di gestione politica delle trasformazioni della città e del territorio hanno mostrato, in tutto il continente europeo, una straordinaria convergenza verso quanto era possibile intravedere ed è stato di fatto preconizzato molti anni or sono è forse importante tornare a riflettere, fuori da ogni visione contingente e di breve periodo, sul carattere, il senso e le ragioni di questo cambiamento.

A partire dal XVIII° secolo e sino almeno agli anni '60 del XX°, con qualche anticipo o ritardo nei diversi paesi europei, come tutti sanno, la città è stata meta di intensissimi flussi migratori che ne hanno provocato una crescita in popolazione ed estensione senza precedenti. Nelle parole di W. Sombart ciò "è stato uno degli avvenimenti più importanti per l'intero sviluppo della nostra Kultur". Le più o meno ordinate addizioni urbane di questo lungo periodo e soprattutto dell'ultimo secolo sono, come ognuno può constatare, assai più estese della città che ad esse preesisteva. Esse ne hanno modificato forma, senso, ruolo, modi di funzionamento, relazioni tra le diverse parti e con il mondo esterno. Più nel profondo hanno modificato gli immaginari individuali e collettivi, i modi di pensare la città, il territorio ed il loro possibile futuro.

L'urbanistica moderna nasce come disciplina autonoma, dotata di uno specifico ruolo sociale e fondata su specifiche tecniche, in questo stesso periodo, in un'epoca cioè nella quale il tema principale è quello della costruzione di nuove, estese parti di città e, quindi, di una configurazione dell'intera compagine urbana e territoriale adeguata alle domande che dalla società e dall'economia urbane via via emergono ed alle risposte che, con le tecniche via via disponibili, possono essere loro date.

Lo strumento che la società europea mette a punto, sostanzialmente analogo in tutti i paesi, è costituito da un insieme di prescrizioni, solitamente espresse in forma grafica e verbale, che cercano di dare all'ampliamento della città indirizzi e regole che assicurino adeguate prestazioni dello spazio abitabile ed un efficiente funzionamento dell'intero complesso urbano. L'attenzione è dapprima posta sulla città come immenso e fondamentale capitale fisso sociale, come infrastruttura allargata che consente un processo di riproduzione sociale che ha nel sistema di fabbrica e nella città il proprio centro; poi, in piena epoca liberale, è posta anche sulla necessità di regolare il mercato fondiario ed edilizio ed in particolare le principali conseguenze dei meccanismi di redistribuzione della ricchezza che suo tramite si mettono in moto ed infine, nel secolo ventesimo, l'attenzione è posta anche sulla città come luogo deputato per la costruzione di un welfare generalizzato nel quale si rappresenti un esteso diritto di cittadinanza, la possibilità cioè di accesso per sempre più vaste parti della popolazione a beni e servizi che pratica amministrativa e riflessione economica necessariamente includono entro la sfera dei "beni pubblici". La macchina, l'organizzazione della produzione e del lavoro divengono, come in tutta la società disciplinare, le principali figure di riferimento di questo periodo. Come noto ciò non riguarda solo l'urbanistica.

L'architettura della città rimane solitamente racchiusa entro un "progetto implicito" che si esprime e rappresenta con strumenti differenti: dalle geometrie, gerarchie e disegno dei materiali costitutivi della maglia stradale, alla costruzione loro tramite di luoghi eccezionali e significativi, all'ubicazione delle grandi attrezzature urbane, alle norme che regolano, in modi più o meno dettagliati, le possibilità ed i diritti edificatori, i rapporti tra pieno e vuoto, tra spazio pubblico e privato, tra distanze e volumi. Con questi strumenti concettuali ed operativi, quando interpretati in modi non banali e riduttivi, sono state costruite architetture della città che sono divenute riferimenti importanti per tutto l'ultimo periodo della modernità.

Alla fine degli anni '60 del XX° secolo il tema è cambiato. La crescita urbana nel nostro continente ha avuto un termine. Per una serie di ragioni demografiche, sociali, economiche e culturali gli immensi trasferimenti di popolazione dalla campagna alla città, dall'agricoltura all'industria, dal sud al nord, dal mondo e dalla cultura rurale al mondo ed alla cultura urbana si sono dapprima attenuati e poi praticamente annullati. Ciò è avvenuto, in tutta Europa, contemporaneamente ad evidenti processi di deindustrializzazione delle maggiori aree urbane ed alla demolizione di molti aspetti del welfare state. Sarebbe illusorio cercare di stabilire semplici legami causali tra questi fenomeni peraltro assai articolati. La fenomenologia urbana è sempre sovra-determinata. Ma tutto ciò ancora una volta è stato uno degli avvenimenti più importanti per il più recente sviluppo della nostra Kultur.

L'epoca della crescita della città non si ripeterà più, perlomeno entro gli orizzonti temporali che ci è dato pensare in Europa. Anche i flussi immigratori da altri continenti e culture non consentono previsioni di crescita analoghe a quelle dei decenni passati; decenni che ci hanno lasciato in eredità un immenso patrimonio di aree e di infrastrutture dismesse e che difficilmente possono essere poste tutte assieme sul mercato senza dar luogo a turbative rilevanti in interi comparti delle nostre economie ed una vastissima città diffusa nella quale una parte della popolazione europea ha cercato un welfare positivo che la città non era più in grado di offrire.

Nella nuova situazione il tema del progetto della città è divenuto quello di una nuova configurazione dell'intera compagine urbana che non faccia affidamento su consistenti espansioni della città quanto su di un insieme di interventi puntuali e limitati. Limitati non solo spazialmente, ma anche per gli attori e le risorse che mobilitano ed i tempi loro necessari. Ciò ha cambiato, rispetto il passato, presupposti, modi di costruzione e rappresentazione del progetto della città; ha cambiato soprattutto il processo attraverso il quale le ipotesi avanzate possono aspirare ad inverarsi; più in generale, ne ha cambiato il posto nella società.

Forse questa, cui molti danno il nome di renovatio urbis, non è l'unica strada percorribile, tanto meno si tratta di una strada nuova dal momento che ha importanti precedenti cinquecenteschi estesamente studiati proprio alla fine degli anni '70 in concomitanza con il cambiamento cui mi sto riferendo, ma il recente cambiamento del progetto della città sta tutto qui anche se, così descritto, non appare in tutto il suo spessore ed in tutta la sua portata.

Interpretato inizialmente come fuoriuscita dall'urbanistica e da un insieme di regole che, nella nuova situazione, apparivano inadeguate ed inefficaci quanto ideologicamente ispirate, esso ha gettato nello sconforto molti urbanisti ed ha generato l'euforia di molti architetti ed operatori sempre più disponibili nei confronti di un crescente clima di pragmatismo acritico. Euforici e depressi per ragioni opposte rimuovevano i caratteri ed i modi del cambiamento, forse le sue molteplici cause. Un insieme di progetti ed azioni puntuali, spesso di grande valore architettonico, ha così occupato l'immaginario e le politiche urbane con ricadute in molti casi assai modeste sulle diverse dimensioni della città e del territorio e con risposte assai parziali alle domande che ne emergevano. La ricerca di visibilità ed immediatezza e la retorica del "mercato" hanno spesso ridotto l'area di una ricerca paziente dell'interesse collettivo e generale, tanto più difficile quanto più veloce era in questi anni il mutamento delle strutture economiche e delle pratiche sociali. In compenso essa ha espanso quella dell'interesse privato. In società come quelle occidentali nelle quali da anni si stanno aggravando nuove e drammatiche disuguaglianze, costruendo nuove ed aggressive gerarchie, nuovi beni posizionali, nuove mappe del potere, ciò ha corrisposto ad una sempre minore attenzione per le domande espresse dai gruppi sociali più deboli.

L'urbanistica non può risolvere problemi più grandi di lei, ma non per questo deve divenire connivente con tendenze sostenute da retoriche prive di fondamento e che si dichiara di non condividere. Tanto l'ambiguità che il moralismo hanno limiti che occorre di continuo tenere sotto osservazione. Forse vale la pena di tornare a riflettere su alcuni aspetti e meriti del periodo che ci siamo lasciati definitivamente alle spalle per reinterpretarli entro le nuove condizioni.

La condizione principale perché una politica di renovatio urbis acquisti senso e coerenza, perché nell'insieme di azioni nelle quali essa si concretizza non si rappresentino i soli interessi degli attori che si mobilitano, quanto una coerente mappa strategica della quale possa essere dimostrata l'utilità sociale è che le stesse azioni si collochino senza forzature entro una vision condivisa e di lungo periodo. Una vision non è un piano: è allo stesso tempo assai meno dettagliata e più complessa; non tende a definire diritti e doveri specifici, a costruire procedure esecutive, quanto a delineare una linea di fuga, un orizzonte di senso per l'intera collettività precisando le strategie atte ad avvicinarlo. Una vision è aperta e flessibile, ma dotata di potere discriminante: non ogni azione può esservi inserita. Essa accoglie, modifica o rifiuta non su di una base giuridica, ma su di un base logica, di coerenza sostanziale e formale. Quanto più forte, perché assoluto o condiviso, è il potere che la esprime, tanto più essa sta nel retroterra del non detto. Sisto V aveva una chiara visione del futuro di Roma, come l'avevano Napoleone III° ed Haussmann, ma come l'aveva anche Oriol Bohigas quando ha costruito la nuova politica urbana di Barcellona e l'insieme di progetti per i quali la città è divenuta riferimento obbligato alla fine del XX° secolo.

In una società democratica ed aperta la costruzione di una vision entro la quale diverse azioni puntuali acquistino senso non può restare nell'implicito, né può essere prodotta da un potere che non sia indotto a renderne conto. Ma sarebbe illusorio pensare che essa possa emergere direttamente da un colloquio in-mediato con i cittadini, dalle istanze della partecipazione. Chi ha tentato questa strada fuori da ogni falsa retorica è solo giunto a proposte banali, riduttive ed inscritte entro orizzonti spazialmente, temporalmente e socialmente assai limitati. La strada è un'altra ed impegna in modi assai più vasti e civilmente responsabili chi del progetto della città e del territorio si occupa. Né la costruzione di una vision può permettersi oggi di precedere le azioni puntuali ricostruendo una procedura che dal generale giunga al particolare e che ha già ampiamente dimostrato la propria inefficacia. Oggi occorre accettare la sfida di un percorso più difficile che si svolga contemporaneamente in molte direzioni ed a diversi livelli, che attraversi le scale del tempo e dello spazio fisico, sociale, delle istituzioni e del potere. In questo nuovo viaggio di formazione non siamo del tutto privi di viatico.

Il principale a me sembra l'idea di una continua, paziente costruzione di scenari: "cosa succederebbe se…", questo è uno scenario. In una società democratica ed aperta ognuno è libero di avanzare proposte e di motivarle ricorrendo agli argomenti che più ritiene opportuni. Dobbiamo anche accettare la dimensione retorica delle società contemporanee, il flusso di immagini verbali e visive, seducenti o terrorizzanti, che cercano di indurci ad accettare o rifiutare alcuni possibili aspetti del nostro futuro come del nostro passato. Ma il compito di ogni intellettuale che pretenda legittimazione, architetti ed urbanisti compresi, è quello di sottoporre ognuna di queste immagini ad un severo vaglio critico trasformandole appunto, contemporaneamente alla costruzione di visions e di progetti, in scenari. Come ho più volte cercato di dire non si tratta di un cambiamento metodologico, ma di una radicale rivoluzione epistemologica.

Essa parte dalla constatazione di quanto si sia ridotta, a partire dalla seconda metà del secolo XX°, la fiducia ingenua nelle nostre capacità previsive. Il futuro ci appare sempre meno come qualcosa che ci viene incontro e che sta a noi, con i nostri strumenti di indagine cercare di vedere prima, di pre-vedere appunto e sempre più ci appare come un costrutto, sovradeterminato, nel quale la distribuzione del potere svolge un ruolo di straordinaria importanza. L'incertezza non è uguale per tutti: essa assilla chi non ha potere, ma è spesso l'esito delle azioni di chi il potere detiene, delle sue visioni implicite, dei modi nei quali sono stati costruiti e valutati i suoi scenari.

Per un lungo periodo l'urbanistica, intesa in senso assai largo, ha svolto un ruolo socialmente progressivo mettendo in luce come nella città e nel territorio si rappresentassero e costruissero le ineguaglianze prodotte dallo sviluppo delle nostre economie e dai comportamenti delle nostre principali istituzioni. Dall'inizio del XIX° secolo in poi l'urbanistica è stata per necessità logica spinta a prendere una forte distanza critica dal mondo circostante, ad esserne una delle principali coscienze critiche. Per brevi periodi è stata accompagnata anche dal lavoro progettuale di molti architetti. Non vi ha dubbio che ciò abbia sostenuto il processo di democratizzazione della società europea ed anche la sua crescita economica: in questo senso l'urbanistica europea ha svolto un ruolo progressivo. In modi diversi il progetto odierno della città deve cercare di tornare a questo suo ineludibile ruolo: non sulla base di una missione che nessuno gli ha affidato, non sulla base di una retorica militanza, ma sulla seria e scientifica base di un continuo controllo degli scenari che possono concorrere alla contemporanea costruzione di visions entro le quali differenti azioni e progetti trovino contemporaneamente la propria legittimità. In questo stare simultaneamente tra progetto, vision e scenario sta oggi la vera difficoltà dell'urbanistica.